martedì 24 aprile 2018

La recensione de "Le memorie di Helewen" sul blog letterario "Les Fleurs du Mal"




Introduzione, a cura di Alessandra Micheli

La cultura popolare ha dato alla letteratura i migliori racconti, quelli in cui è racchiusa tutta la nostra tradizione umana. Valori sociali, miti sulla fondazione, elementi di scienza e di magia, esperienze e soprattutto, la modalità con cui il legame tra noi e la natura si è sviluppato, perfezionato e consolidato. Ecco il valore etico e storico dei miti, delle leggende e soprattutto delle fiabe. Senza queste memorie antiche, che contengono sempre l’orrore del disastro vero o presunto, causato da coloro che trasgrediscono le leggi sacre, quelle che riescono a garantire non soltanto la purezza degli insegnamenti ma che elargiscono semi di rispetto nell’interazione con l’altro e con l’ecosistema. Come disse sempre Gregory Bateson, il dio Ecologico non può essere beffato. Esso si riconferma come il collante che tiene insieme un immenso mosaico dove, fauna flora e animali tra cui l’uomo stesso, riescono a convivere creando un sistema interconnesso. Ecco cosa racconta la scienza sacra tanto amata da Guenon o i miti riguardanti la dinastia di Re sacerdoti. O le leggende della genesi che raccontano sempre come, dopo un disastro creato da una mancanza, si ricostruisce sempre dal nuovo.

E cosa dire dei racconti riguardanti il giardino dell’Eden?

Sono tutti elementi che possono riguardare sia una storia mitica fonte della società che oggi è da noi mantenuta, sia un racconto iniziatico dell’anima che, nei racconti, non è mai frutto di un’evoluzione puramente darwiniana ma da una trasformazione di tipo gnostico. Noi discesi dal cielo, spesso a causa della rottura di un tabù (angeli che si innamorano di donne o un semplice umani che riescono a far innamorare di loro esseri appartenenti al regno del numinoso) siamo ibridi meravigliosi e oscuri partecipanti di due nature opposte che si combattono e che in questo percorso di crescita devono ritrovare l’originaria armonia. Insomma l’uomo non è affatto frutto di una coincidenza, ma scaturito da un preciso progetto, da un esperimento in cui si unisce lo spirito con il terreno. Come poi viene considerato quest’esperimento se frutto di una volontà creatrice o distruttrice cosi come raccontato dai bellissimi testi gnostici, è un discorso a parte che risente di influenze religiose ossia di come si avverte la posizione di questo strano essere chiamato uomo all’interno della creazione stessa. E tanto più lo iato tra la sua natura divina e terrena si fa ampio e dissonante, tanto più saremo considerati vittime di un inganno e prigionieri di un crudele e beffardo demiurgo.

Nel caso di Brocchi ci si trova di fronte a un maestoso tentativo di fondere due anime: quella orientale molto meno “arrabbiata” e quella occidentale, con quella frustrazione congenita causata, forse, dalla perdita di una parte della nostra stessa memoria. Ecco che il primo libro che racconta della fondazione, diviene abbagliante, seduttivo e terribilmente poetico. I Pirin sono i nostri progenitori, ibridi bellissimi frutto di un tabù terrificante quello che porta un semplice orafo deciso a superare i propri limiti umani a innamorarsi e a farsi sedurre dalla moglie del dio della luce, la fata dei fiori. Ecco la genesi della tribù dei semidei. E questo mito ricalca, in maniera molto orientaleggiante in cui si sommano gli stessi effluvi esotici delle mille e una notte, i bellissimi racconti del lontano, ma non troppo, oriente.

Le memorie di Helewen divengono cosi le nostre stesse memorie. E i Pirin seppur annacquati diveniamo noi, la razza umana perduta nei meandri del tempo, dimentica che, un tempo, essa nasceva dal fiore baciato dalla luce e dal coraggio spavaldo e folle di un orafo, di un semplice artigiano guidato dalla forza dell’amore. E non è un caso che i progenitori di questa strana comunità di semidei sia un orafo, ossia un lavoratore della materia preziosa per eccellenza l’oro, quello che tutti noi aspiriamo a diventare tramite un alchemico e difficoltoso percorso. Dotato delle caratteristiche del metallo esoterico per eccellenza, l’oro, grazie al coraggio, alla generosità, alla volontà del dare per poi poter ricevere, la sua strada diviene si irta di orrori ma anche di eterne e incantate meraviglie.

E tutto questo esoterismo si rivela contenuto in un solo comandamento: ama e fa ciò che vuoi.

La saga dei Pirin, dunque, riveste una notevole importanza etnologica e non solo letteraria, non solo bellezza ma memoria del nostro passato, del nostro presente e immagine del nostro futuro. Andiamo a scoprire meglio il primo dei tre libri assieme alla nostra Francesca.


 Libro Primo. Le memorie di Helewen. Recensione di Francesca Giovannetti

“Scriverai la mia storia, Nhalfòrdon-Domenir. Così che i ricordi di un vecchio re non vadano perduti con la sua morte”, sentenziò il Pirin.

 Nella splendida villa delle Magnolie l’anziano re Helewen affida al giovane Nhalfòrdon-Domenir,  nominato senza preavviso suo scrivano, la nascita, i miti, gli dei , le leggende del popolo dei Pirin, discendenti dalla ninfa Uhilyn, la fata dei fiori di loto, unitasi in antichissimi tempi con un uomo di stirpe mortale. Il popolo dei semidei, che vive nel regno di Lothriel, possiede la bellezza e la saggezza propria degli immortali e i suoi discendenti, nel corso delle ere, vagano per le terre di Gaimat incontrando popoli di stirpe e natura diversi, folletti, nani, giganti, spiritelli e uomini.
È impossibile presentare una sinossi di questo capitolo della saga epica dei Pirin. Il primo libro narra l’incontro fra i capostipiti, l’orafo Theoson e la ninfa Uhilyn  e termina con l’incoronazione a re di Helewen. Nello snodarsi della storia i due eventi principali sono la costruzione del magnifico tempio di Ghaladar, il dio sole, e la ricerca delle due metà della corona di Sibereht  da parte di Helewen e della sua futura sposa, corona che potrà cambiare il destino del mondo.
Non sempre il genere di appartenenza di un’opera descrive in pieno l’opera stessa, ma in questo caso le due cose combaciano alla perfezione. L’aggettivo che meglio descrive questo testo è infatti: epico.
Epico nella vicende narrate, epico nei personaggi e nei caratteri, epico nelle splendide descrizioni, accurate e magnifiche, epico nello stile, tipico delle grande narrativa fantasy.
Niente è lasciato al caso.

Ogni particolare è curato nei dettagli più minuti. Ogni popolo è descritto nella sua fisicità, nel tipo di società che ha creato, nel modo di vestire, negli ornamenti che indossa. Ogni fiore, ogni pianta, ogni paesaggio è curato nei colori e nei movimenti.
Ogni dio descritto nelle sue capacità e nelle sue mancanze, ogni rituale spiegato, ogni  preghiera, ogni canto, ogni formula ha la sua ragion d’essere.
Geniale è il risultato di un’opera così accurata, che , come lo stesso autore ci rivela, ha visto la luce dopo dieci anni di lavoro.
Non poteva essere altrimenti, certe vette non sono raggiungibili in tempi diversi.
Ogni avventura vissuta da un personaggio non porta in sé soltanto un mero racconto ma trasmette un messaggio. Uno fra i tanti, quello sull’amore

“… è facile amare ciò che siamo in grado di comprendere, ciò con cui siamo d’accordo e che troviamo ragionevole, ma il contrario, l’amore incondizionato, che supera il giudizio dell’intelletto, è il più raro dei miracoli di un cuore.”

Questa è la straordinaria forza dell’opera, condividere  riflessioni estremamente connesse con la realtà quotidiana usando come mezzo la letteratura fantasy.
Ma i pregi della saga non finiscono qui. Cattura infatti l’ammirazione del lettore la capacità dell’autore di aver dato vita a una nuova lingua e a nuovi alfabeti, che troviamo nell’appendice. Una mole di lavoro affrontata con professionalità, diligenza, metodo e una fantasia senza confini.
Il tocco finale lo abbiamo invece nelle particolareggiate illustrazioni sparse fra le pagine, che nascondono anche uno spartito musicale composto ad hoc.
Non si può chiedere di più a un epic fantasy.
Perfetto.

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